Che noia, che barba, che barba, che noia! Mai un attimo di pace. Oggi
pomeriggio poi verranno in visita quei quattro mocciosi della scuola
elementare, e con quale guida: Adalgisa Casini, proprio nomen omen, non ne
indovina una. Bah! L’ho ripetuto più volte al ritrattista che era meglio se mi
dipingeva seduta su un bel sofà di broccato verde, con la mano poggiata
sotto il mento e lo sguardo perso all’orizzonte ma lui, niente: ha replicato che
dovevo avere una posa prestigiosa che rispecchiasse il mio carattere e il
mio ruolo di principessa e, pertanto, non poteva effigiarmi diafana e
mollemente adagiata su un divano di qualsivoglia colore, e non erano poi
quelli i tempi, bensì mi avrebbe dipinto in posizione eretta e maestosa
così da farmi fare la mia bella e rispettosa figura! E, da allora, sono più di
quattrocento anni che sto in piedi, con un busto, sotto il vestito nero, che mi
soffoca e un colletto che mi strozza; avrei diritto anch’io a riposarmi un po’.
Comunque ora non è tempo di recriminazioni, è meglio che mi dia una
sistemata: devo rimettere a posto il solito ricciolo ribelle che mi ricade sugli
occhi, umettarmi le labbra, pizzicarmi le gote, allargare le spalle e dare una
aggiustatina alle pieghe dell’abito.
“Bambini, eccoci. Siamo arrivati davanti al ritratto della proprietaria del
palazzo: donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, principessa di San Martino al
Cimino”.
“Certo che è proprio brutta!“ esclamò la ragazzina con le trecce. ”Ha pure i
baffi!”
“Sei bella tu, con i calzettoni scesi sulle gambe, tutte quelle lentiggini e
quell’aria da saputella, comunque pittore mi avresti potuto dare una
ritoccatina. Che ti costava”.
“Signora guida ha mosso le labbra” sempre la bimba.
“Ma cosa vai dicendo, non dire stupidaggini. Ora, piuttosto, sedetevi e
ascoltate. Donna Olimpia…”
“Ora ricomincia, con la sua voce sgraziata, la solita tiritera. So io qual è la
mia storia, cosa può saperne lei! Lei conosce quella narrata nei libri. Quando
nacqui a Viterbo il 26 maggio del 1591 non venni accolta bene, ero una
femmina che oltre tutto faceva seguito a un’altra femmina; dopo di me arrivò
il maschio tanto atteso e mio padre fu talmente contento che decise di far
entrare in convento noi sorelle sì che mio fratello avrebbe ereditato l’intero
patrimonio. Ricchi eravamo ricchi, mio padre, Sforza Maidalchini, era un
mercante con un gran fiuto per gli affari, e di ricchezze ce ne sarebbero
state per tutti, ma a quei tempi era in uso così. Non mi ci volle molto a capire
che quella vita monastica non faceva per me ed escogitai un piano, ma questo
si potrà raccontare ai marmocchi? Accusai il mio padre spirituale di volermi
sedurre; uno scandalo! Dai palazzi alle osterie in Viterbo non si parlava
d’altro e il mio genitore fu costretto a capitolare.
A onor del vero devo riconoscere che non ero proprio bella, ma alta, con
un portamento fiero e un cervello fino; i miei lineamenti però erano
grossolani e per niente eleganti e il mio corpo consistente. Un’altra usanza
di quei tempi venne messa in atto; per metter fine alle dicerie niente di
meglio che un bel matrimonio riparatore e combinato, quello con Paolo Nini.
Messer Paolo non l’amavo, era molto più grande di me e poco gentile, e a
letto rapido e sbrigativo. Dopo tre anni fui graziata, morì per un attacco di
cuore e mi lasciò…”
“…il marito la lasciò vedova e ricca, molto ricca”.
“Che donna fortunata!” mormorò la viperetta.
“Fortunata, ma quale fortunata! Diciamo che mi sono saputa gestire e non mi
sono mai curata delle chiacchiere che su di me erano sempre tante: chi
diceva che ero avida, altri tirchia, ma io mi ritenevo solo oculata: sono stata
sempre sulla bocca di tutti o per un motivo o per un altro e feci mio il verso
del sommo Poeta: non ragioniam di loro ma guarda e passa. Comunque,
ricapitolando, una volta vedova andai al Santuario di Loreto per ringraziare la
Vergine e qui, in una stazione di posta per un cambio di cavalli, incontrai
Pamphilio Pamphilj. Per lui fu amore a prima vista, per me fu amore dopo
tutta una serie di considerazioni. Aveva un nome altisonante, quello di una
delle famiglie nobili più antiche e importanti di Roma ma, in quanto a
quattrini, ne teneva assai pochi anzi, a essere precisi, manco ‘na scarsella.
La casa dove viveva a piazza Navona, cadeva a pezzi ed era il regno di ratti e blatte. Si sarebbe dovuto fare un grosso lavoro per rimetterla in sesto e
chiamare fior fior di architetti: io avevo i soldi e lui il nome. Mi sembrò un
equo compromesso e ci sposammo. Ora ero diventata donna Olimpia
Maidalchini Pamphilj, il cognome di mio padre l’ho voluto mantenere“.
“… si sposò una seconda volta con Pamphilio Pamphilj che…”
“… era anche lui vecchio: una trentina di anni per difetto più di me e anche
lui con un nerbo moscio e tardo. Ma non mi importava, mi diedi da fare e in
poco tempo il palazzo rifiorì. Chiamai gli architetti più bravi e famosi e le
maestranze e gli artigiani migliori di Roma; i topi dovettero far fagotto mentre
io, con le mie arti e innumerevoli scudi, baiocchi e fiorini ricucivo le
molteplici e preziose conoscenze dei Pamphilj. Poi ebbi un’idea, feci due
calcoli e…”
“… e Olimpia divenne lo sponsor ufficiale del cognato, Giovanni Battista,
brillante avvocato della curia romana”.
“Quanti uomini per una donna!“ replicò la bimba.
“Si uomini, ma i Pamphilj senza di me, una donna, sarebbero rimasti al
palo. Riuscita a manipolare la curia ungendola qua e là e intrallazzando un
po’ ovunque Giovan Battista divenne Papa con il nome di Innocenzo X. E le
malelingue non ebbero più freno. Mi chiamavano la papessa e gracchiavano
che nulla si faceva che alla papessa non garbava, anzi dicevano “per chi
vuol qualche grazia dal sovrano aspra e lunga è la via del Vaticano, ma se è
persona accorta corre da donna Olimpia a mani piene e ciò che vuole ottiene“, oppure “chi dice donna dice danno, chi dice femmina dice malanno, chi
dice Olimpia dice danno malanno e rovina“. Che esagerati! Tutta invidia!
Certo dovevo rimpinguare le mie casse e allora vendetti dei benefici, falsificai
delle carte e organizzai dei comitati per l’assistenza ai pellegrini che
servivano a incrementare le mie finanze e, poi, divenni l’amante del papa
mio cognato. E qui giù con altre dicerie. A Roma ero sulla bocca di tutti: la
pimpaccia di piazza Navona. Giovan Battista era brillante, un amante
focoso, venivamo rapiti dai nostri amplessi e davamo libero sfogo ai nostri
desideri, finalmente scopersi il piacere dell’alcova, non avevo più niente da
desiderare. Quando Pamphilio morì, anche lui di crepacuore, mi dilettai
anche con altri amanti e i romani, da bravi goliardi, fecero una delle loro
Pasquinate. Misero un disegno sul busto di Pasquino, una donna nuda con le mie sembianze, e con l’indice della mano puntato all’altezza del sesso con su
scritto ”fin qui arrivò Fiume”. Non si trattava certo di una piena del Tevere
bensì di Fiume il mio maestro di Camera. Ma tutto questo l’Adalgisa non lo
racconta certo ai pargoli“.
“E son due mariti che fece fuori” disse un altro di quei marmocchi .
“Che portasse jella?” sussurrò la bimbetta, mentre la guida continuava:
”Allora dato che la papessa aveva troppo potere il Papa decise…”
“…decise di allontanarmi da Roma. Quer fijo de ‘na mignotta come se dice
con decenza parlando a Roma, mi nominò principessa di San Martino al
Cimino e feudataria di Montecalvello, di Grotte Santo Stefano e di
Vallebona. Nel 1645 arrivai a San Martino con la mia corte. Una
desolazione… l’abbazia in rovina e nemmeno un fraticello ad aspettarmi. Bè
non mi buttai a terra, feci arrivare da Roma persino il Borromini, restaurai la
chiesa aggiungendovi due torri come contrafforti, e mi feci erigere un palazzo
alla mia altezza. Nel palazzo c’è una scala…”
“… la scala elicoidale, con i gradini lunghi e bassi, che avete visto serviva
per entrare direttamente nel palazzo con i cavalli e le carrozze…”
“Adalgisa, Adalgisa, devi dire la verità. La scala serviva in principal modo al
Papa per venirmi a trovare senza farsi vedere. Che giornate abbiamo passato
insieme lontani dagli inciuci della curia, del popolino e di Pasquino e in
special modo che notti, notti di passione e di furore. Comunque feci anche
altro. Il principato si fregiò di un forno, un teatro, una fontana a fuso come
quelle di Viterbo, lavatoi e macelli e due porte con tanto di stemma dei
Pamphilj: porta Romana e porta Fiorentina. Inoltre affidai all’architetto
militare Marcantonio De Rossi la progettazione delle mura perimetrali sulle
quali poggiavano le tipiche abitazioni con i tetti degradanti, le mostre delle
porte in pietra con sopra ognuna inciso un numero romano: la prima forma
di edilizia popolare e ancora avevano da cianciare…”
“… popolò San Martino con cinquanta detenuti delle carceri di Civitavecchia
e cinquanta donne…”
“Adalgisa mia, e ora come glielo spieghi che erano donne di malaffare dei
postriboli di Roma? Ma che piacere sentire il brulicare di voci e attività, l’odore della cenere per lavare i panni, quello della farina, il rumore del maniscalco e… il tintinnare delle laute gabelle che riscuotevo da ognuno di loro. Sembrava andare tutto per il meglio quando nel 1655 il Signore pensò bene di chiamare a sé Innocenzo X e quei benefattori della curia avrebbero voluto che fossi io a pagare le spese per le esequie, ma ti pare fare una tale richiesta a una povera vedova come me ancora contrita dal dolore. A metter fine a tutto ci pensò la peste…”
“… nel 1657 la principessa Olimpia morì colpita dalla peste e venne sepolta
sotto una gran lastra di marmo nella navata centrale dell’Abbazia“.
“Ma non è finita qui, mia cara signora guida Adalgisa Casini. Il mio
fantasma…”
“… si dice che il fantasma di donna Olimpia, il sette gennaio di ogni anno
corre per le strade del centro di Roma, da piazza Navona a ponte Sisto, su
una carrozza, condotta da un cocchiere senza testa, ridondante di tesori,
trainata da cavalli neri che sputano fuoco, spaventando i passanti con i suoi
terribili sghignazzi e si dirige verso il fiume Tevere dove si inabissa per
raggiungere gli inferi”.
“Brr, brr è una storia che fa paura“ disse il compagnuccio della bimba con le
treccine rabbrividendo.
“…e c’è chi giura di avermi visto”.
“Avevi ragione muove le labbra e… sogghigna sotto i baffi“ concluse il
piccoletto prendendo la mano della ragazzina e affrettandosi verso l’uscita.
Delfina Tommasini
“Dove non arrivo ci tiro il cappello, o almeno ci provo”