Sulle Orme di Egeria

Le Veneziane, una roccaforte di emancipazione femminile


“Romantica, imperfetta, misteriosa, magnetica, affascinante, elegante, sinuosa.
Venezia è come una donna che ti innamora”.

Ah, Venezia. Impossibile trattenere un sospiro sognante già solo nel pronunciarne il nome. Città di mistero, licenziosità, Carnevale, maschere…e anche di un’incomparabile bellezza. Unica al mondo, uno dei luoghi più mistici di cui possiamo vantarci nel Belpaese. Visitarla appare come immergersi in un’altra dimensione, dove le strade sono soppiantate da canali e il rumore del traffico svanisce, sostituito dal costante e placido sciabordio dell’acqua lungo i muri delle case. Ogni angolo ha un che di pittoresco, tanto che diventa difficile non fermarsi ogni pochi passi. Così bella quando è baciata dal sole e al tempo stesso tremendamente lugubre se avvolta dalla foschia, tanto che potrebbe accadere di tutto, persino fare misteriosi incontri con fantasmi del 1700.

Tuttavia, oltre che suggestiva, Venezia possiede una curiosa peculiarità: nonostante il governo veneziano sia sempre stato rappresentato come bieco e tirannico, in realtà la politica sociale era molto evoluta, con particolare riguardo nei confronti delle donne. Proprio così, sebbene si sia sempre parlato di pregiudizi nei confronti delle veneziane fino al XIX secolo, la verità era che Venezia godeva di una certa libertà femminile unica al mondo e impensabile per gli altri stati europei dell’epoca.

Le signore della Serenissima, pur facenti parte di una società di stampo prettamente maschile e dove anche il governo era appannaggio dei soli uomini, potevano comunque vantare dei diritti sui figli e sui beni personali, partecipavano attivamente alla vita economica, artistica e mondana della città, potevano gestire i Caffè o altre attività economiche senza bisogno di alcun controllo maschile, oltre che stipulare da sé qualsivoglia tipo di contratto. Un esempio fu Marietta Barovier, inventrice della perla rosetta, una delle prime imprenditrici medievali veneziane più famose.

A livello legale ci sono state moltissime sentenze di condanne per stupri e femminicidi, che spesso non venivano nemmeno sanzionati negli altri paesi. Dunque, le donne potevano ottenere giustizia; certo, solamente quelle ricche e che potevano permettersi di andare in tribunale, ma erano comunque dei passi in avanti.

Cronologicamente parlando, una delle prime figure femminili degne di menzione della città sull’acqua è senza dubbio Caterina Corner (1454 – 1510), definita da molti come l’ultima regina della Serenissima. Discendente della nobile casata dei Corner, proprietari del sontuoso Ca’ Corner della Regina, Caterina sposò il re di Cipro per procura; un accordo molto vantaggioso per Venezia, che si stava espandendo verso l’Oriente. Tuttavia, re Giacomo II morì poco dopo le nozze, lasciandola con un erede appena nato e dunque troppo piccolo per regnare. Caterina fu vittima di numerose congiure, ma il momento più terribile della sua vita fu la morte del figlioletto per febbre malarica. Eppure, nonostante l’abisso di disperazione nel quale era sprofondata, quando la Repubblica Veneziana intervenne con la sua potenza per restituirle il regno, la donna si fece coraggio e assunse le redini del potere con forza e determinazione. Nell’ottobre del 1488 fu scoperta un’altra congiura; Venezia represse di nuovo la ribellione e decise di richiamare Caterina, costringendola ad abdicare a favore della Repubblica. A seguito del suo rifiuto, fu minacciata che, in caso di disobbedienza, sarebbe stata spogliata di tutti i privilegi e trattata come ribelle. Così, la regina lasciò per sempre l’isola. Venezia la riaccolse in maniera trionfale, designandola Domina di Asolo, dove le fu donato un castello che, in realtà, non era altro che una prigione dorata, dove Caterina vi rimase sino alla morte.

Appena qualche decennio dopo, a Venezia si iniziarono a porre le basi per un primordiale nucleo di pensiero cosiddetto protofemminista, grazie ad un gruppo di giovani donne che ebbero la capacità di pensarsi libere ed esprimerlo pubblicamente; la maggior esponente fu Moderata Fonte, pseudonimo di Modesta Pozzo De’ Zorzi, poetessa del XIV secolo. Ella riteneva che la presupposta “superiorità maschile” nei confronti delle donne non fosse dettata da fattori naturali, bensì dalla diversa educazione ricevuta; per questo cominciò a invocare il diritto allo studio, riscrivendo la storia con un punto di vista tutto al femminile.

Una tale emancipazione venne ampiamente dimostrata da Veronica Franco (1546 – 1591), l’archetipo della cortigiana veneziana. Del resto, è risaputo che la Repubblica sia da sempre il simbolo per eccellenza della libertà di espressione, motivo per cui, all’epoca, anche la prostituzione era un’arte assai diffusa; a rammentarcelo il Ponte delle Tette, nel sestiere di San Polo, il cui nome rimanda alla fine del Quattrocento. Tuttavia, Veronica, intelligentissima, si distinse per la sua forte personalità, il che le aprì il cuore di uomini potenti che le consentirono l’accesso ai circoli letterari della città, dove partecipò alle discussioni e curò lei stessa alcune antologie. Naturalmente la sua popolarità le attirò numerosi nemici: nel 1580 fu incarcerata e poi condotta innanzi al Tribunale del Sant’Uffizio, ovvero l’Inquisizione Veneziana, denunciata per stregoneria. Pur difendendosi brillantemente, fu rilasciata solo grazie alla testimonianza di illustri personaggi facenti parte di quella Venezia nascosta di cui lei conosceva parecchi segreti. Dopo il processo, tutti i suoi clienti la evitarono e i pochi documenti ancora esistenti riportano che, sebbene ottenne la libertà, perse tutte le ricchezze ed i beni materiali. Eppure, come si suol dire, l’abito non fa il monaco, giacché, nonostante la sua “professione”, nel corso della storia Veronica risaltò per la sua generosità, dato che aveva fatto realizzare un ospizio dove le cortigiane e i loro figli avrebbero potuto trovare riparo.

A livello artistico, immancabile il nome di Rosalba Carriera (1673 – 1757), vera protagonista del Settecento veneziano, le cui miniature e i piccoli ritratti a pastello l’hanno resa famosa in tutto il mondo. Rosalba iniziò a dipingere da sola fin da giovanissima, tramite uno stile che si è sempre contraddistinto per la sua delicatezza, con la tavolozza impostata su toni chiari. Inoltre, una delle caratteristiche che hanno reso la ritrattista una delle più ammirate di tutti i tempi è la sua capacità di penetrare nella psicologia del personaggio, cogliendone lo stato d’animo e restituendolo sul supporto su cui dipingeva.

La produzione artistica di Rosalba è costituita quasi per intero da opere su pastello. Secondo la mentalità di quel tempo, tale tecnica pareva essere ritenuta l’unica adatta alle donne, che avevano così il tempo per dedicarsi alle faccende domestiche senza farsi assorbire troppo dalla pittura. Inoltre, non va sottovalutato il fatto che il materiale si poteva trasportare più facilmente rispetto a quello richiesto dalla pittura a olio e i costi erano minori.

Venezia diede i natali anche a due famose poetesse: Gaspara Stampa (1523 – 1554) e Caterina Dolfin (1736 – 1793). La prima cantò dell’amore struggente, animando il frequentatissimo salotto della sua famiglia a San Trovaso, dove vi si riunivano pittori, musicisti e letterati. Bellissima, Gaspara visse intensamente e in maniera spregiudicata, tanto che fu spesso additata come cortigiana, pur non essendolo. Si innamorò perdutamente di un conte, a cui dedicò la maggior parte delle sue Rime, un vero e proprio diario lirico di bruciante passione di una donna che non temeva né di amare né di soffrire per amore. Il suo “Canzoniere”fu concepito sulmodello di Petrarca,finoacomporre un diario in versi dotato di musicalità; infatti, tutte le sue poesie sono orecchiabili come canzoni. Morì molto giovane, in preda alle febbri e ai dolori addominali; infatti, qualcuno insinuò che si fosse avvelenata, per non aver saputo fronteggiare il dolore di un amore perduto. In ogni caso, Gaspara fu una delle prime a rivendicare la sua autonomia come scrittrice che si esprime liberamente e si immerge, nonostante le sofferenze, in un amore infelice che le consuma l’anima.

Caterina Dolfin non fu certamente da meno. Il padre l’aveva educata diversamente rispetto alle altre nobildonne veneziane, trasmettendole l’amore per il sapere; dopo un matrimonio, a suo dire, “obbligato”, Caterina conobbe Andrea Tron, all’epoca Ambasciatore della Serenissima e uno degli uomini più potenti di Venezia. Ottenere l’annullamento dalle sue precedenti nozze non fu semplice, soprattutto perché la donna, nonostante le malelingue, abbandonò subito la casa del marito per andare a vivere con l’ambasciatore. Una mossa imperdonabile, persino per una società di aperte vedute come quella veneziana. Eppure, Caterina, forte, tenace e spavalda, non solo divenne uno dei membri dell’Accademia dell’Arcadia, pubblicando una serie di sonetti dedicati al padre, ma, grazie al suo rapporto con Tron, conobbe anche diversi artisti e letterati – Carlo Goldoni le dedicò una delle sue commedie, La Bella Selvaggia – ed entrò in contatto con i filosofi illuministi francesi, quali Rousseau e Voltaire.

Ciò le comportò una perquisizione da parte dell’Inquisizione Veneziana, che le sequestrò tutti i suoi “libri proibiti”, tuttavia questo non le impedì di formare comunque circoli letterari privati dove vi era la possibilità di conversare di politica e filosofia. Nel 1772, finalmente, ottenne l’annullamento e sposò Andrea Tron, il quale fu poi eletto Procuratore di San Marco, la carica più prestigiosa dopo quella di Doge; conformemente al suo ruolo di “Procuratoressa”, Caterina sostenne e consigliò il marito nelle sue battaglie, cercando di arrivare a modificare l’ordinamento dello Stato.

Fu proprio Caterina Dolfin a insistere per dedicare un monumento nell’Università di Padova a Elena Lucrezia Corner Piscopia (1646 – 1684), considerata la prima laureata al mondo. Fanciulla timida e modesta, fin da bambina Elena dimostrò una notevole intelligenza e attitudine allo studio, spaziando dalle lingue – latino, greco, spagnolo, ebraico – sino alla matematica, alla musica, all’astronomia, alla teologia e alla filosofia. Stabilì di ritirarsi in convento, sperando di poter continuare gli studi di teologia, scelta che però le fu negata dalla Chiesa, poiché il vescovo di Padova, con la carica di cancelliere dell’Ateneo, riteneva ridicolo “dottorare” una donna. Tuttavia, il padre di Elena non cedette e alla fine riuscì a ottenere che si cimentasse con filosofia. Il 25 giugno 1678, con un pubblico di migliaia di persone, incuriosite da quel fatto senza precedenti, la giovane, appena trentenne, discusse una tesi su Aristotele. In seguito, fu accolta nel Collegio di Medici e Filosofi di Padova, ma non esercitò mai la professione, preferendo dedicare il resto della sua breve vita allo studio e all’aiuto dei più bisognosi, vestendo l’abito delle oblate benedettine.

Tuttavia, la vicenda di Elena non è che un’ulteriore riprova delle ampie vedute della Serenissima, la quale iniziò a guardare al futuro universitario con occhi differenti, divenendo la prima città in Italia a istituire la facoltà di matematica e offrendo borse di studio agli studenti che non potevano permettersi di frequentare l’università.

Oltre che a potersi vantare delle origini della prima laureata, Venezia fece da culla anche per la prima giornalista donna: si trattò di Elisabetta Carminer Turra (1751 – 1793), grande protagonista del dibattito dei Lumi nel XVIII secolo e precorritrice di una professione all’epoca considerata di pieno predominio maschile. Figlia d’arte, dato il padre giornalista, inizialmente fu avviata alla carriera di modista, salvo poi iniziare a lavorare per la piccola azienda letteraria di famiglia. Insieme al padre fondò il Giornale Enciclopedico, che poi si trasformò nel Nuovo Giornale Enciclopedico, diretto da lei stessa. Un periodico di matrice illuminista, che rispecchiava appieno la personalità della sua direttrice, la quale riuscì a tramutarlo in uno dei giornali più in voga del momento. In tal modo, a Venezia Elisabetta fu una delle prime a dimostrare che anche una donna, con le sue forze, poteva riuscire a emergere dall’ombra e praticare una professione considerata “maschile” bene quanto un uomo.

Durante la Belle Epoque, nella laguna soggiornò un altro personaggio femminile spregiudicato e ai limiti dell’anticonformismo, il cui nome viene ricordato in maniera quasi reverenziale: è Luisa Amman, divenuta per matrimonio la Marchesa Luisa Casati Stampa (1881 – 1957), la quale fece del suo corpo una vera e propria opera d’arte. Originaria di Milano, scoprì ben presto che la vita da sposata non faceva al caso suo e, dopo aver chiesto il divorzio, si trasferì a Venezia per dare sfogo ai suoi eccessi. Ricca in maniera spropositata, Luisa acquistò il Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grandeoggi sede attuale del Museo Guggenheimche divenne il quartier generale della sua eccentricità; infatti, la marchesa non solo vi organizzò feste sontuose, ma lo riempì di animali esotici, quali un boa, che soleva avvolgere attorno al collo come se fosse una sciarpa, poi merli albini, pavoni bianchi, pappagalli e persino un ghepardo, che amava portare al guinzaglio durante le sue “passeggiate notturne” in piazza San Marco. Anzi, pareva chequeste uscite fossero delle vere e proprie rappresentazioni teatrali, con lei nuda e ricoperta solo di una pelliccia e il suo ghepardo con un collare adornato di pietre preziose, che fu diispirazione per un celebre gioiello di Cartier.

Senza dubbio Luisa viene ricordata per la sua sfacciata originalità, dato che ogni cosa nel suo aspetto, dal trucco – oltre alle ciglia finte, si disegnava sempre un cerchio nero attorno agli occhi verdi, di cui si dilatava le pupille attraverso alcune gocce di belladonna – al modo di vestire era pressoché unico, la rendeva una vera icona fashion della sua epoca. Fu musa ispiratrice di numerosi artisti del calibro di Balla, Boccioni, Marinetti e Man Ray, dato che il suo obiettivo era quello di divenire lei stessa arte. Ebbe anche una focosa relazione con Gabriele D’Annunzio, il quale le diede l’appellativo Kore, come la regina degli Inferi. Del resto, come lei stessa, saggiamente, disse: “essere diversi significa essere soli. Non amo l’ordinario, quindi sono sola.”

Infine, non rimane che citare lei, Peggy Guggenheim (1898 – 1979), straordinaria mecenate e collezionista d’arte, che ha scritto una meravigliosa pagina della storia veneziana. La sua posizione sociale e le sue ricchezze le consentirono di iniziare a collezionare opere sin dall’America, inaugurando poi la prima galleria Guggenheim a Londra; il suo successo fu tale venne invitata a esporla alla XXIV Edizione della Biennale d’Arte di Venezia, dove si trasferì nel 1948, acquistando proprio la vecchia residenza della Marchesa Casati Stampa, ossia Palazzo Venier dei Leoni. In breve tempo lo rese una sorta di casa – museo, di cui soleva aprire le porte, gratuitamente, per incoraggiare la diffusione della bellezza. Lei stessa aveva una personalità alquanto bizzarra, sempre adorna di ingombranti orecchini e degli iconici occhiali da sole a farfalla, creati appositamente per lei dall’artista Edward Melcarth.

Oggi il Museo Guggenheim è il secondo museo più visitato di Venezia. Ricco di arte moderna e contemporanea, offre un incantevole scorcio sul Canal Grande e un pittoresco giardino in cui è possibile sostare prima di tornare a reimmergersi nella passione di questa grande donna, che, con la sua collezione, ci ha voluto lasciare un messaggio fondamentale: l’arte può appartenere a tutti e tutti devono poterne godere.   Che dire, dunque, dopo questa carrellata di solamente alcune veneziane particolarmente illustri? Nulla, se non che Venezia è terribilmente e irrimediabilmente donna!

Beatrice Gioia

“La fortuna aiuta gli audaci”
Virgilio, Eneide

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